Versione ridotta dell’intervista di Michele Alinovi per Spazio Tennis
Secondo lei quanto conta il ruolo di mental coach nel team dei tennisti professionisti e quanto può influire positivamente sulle loro prestazioni?
Soprattutto negli ultimi anni è diventato un ruolo fondamentale: ormai tutti i top-player ne hanno uno. A parità di capacità tecnico-tattiche, ciò che fa la differenza nel tennis di alto livello, così come in molti altri sport individuali, è la capacità di mantenersi positivi nei momenti topici della partita, gestire l’ansia, la pressione e le aspettative.
Qual è, in pratica, l’obiettivo del mental coach?
Quello di aiutare il giocatore a costruire immagini positive del proprio tennis durante il match. Pensiamo a quanti colpi complessi e ad alto tasso di rischio un tennista deve eseguire durante una partita; normalmente per il tennista sono frutto di automatismi, bisogna solo correre e decidere dove mettere la palla in campo; a volte però accade che nella sua mente affiori un’immagine-ricordo di quella volta che ha sbagliato un determinato colpo in un momento molto importante di una partita precedente. Ciò che prima era facile ed eseguito con nonchalance, come una volée, tutto ad un tratto diventa complicato e sofferto.
Con quali metodi lavora il mental coach in rapporto al team e con che frequenza?
Esistono varie tecniche che il mental coach utilizza sia a tavolino, a tu per tu con l’atleta, sia durante gli allenamenti, in stretta collaborazione con l’allenatore e il preparatore atletico. In campo si lavora su colpi tecnici specifici che funzionano meno bene, in modo che diventino più automatici e migliori l’autostima nelle proprie capacità.
Perché in Italia esiste una certa reticenza a riconoscere la vostra professione?
E’ una questione culturale: da noi si è più diffidenti rispetto alla psicologia e siamo fissati all’immagine dello psicologo clinico, che si occupa cioè delle patologie mentali. Facciamo fatica a capire l’importanza di una figura come il mental coach, che lavora su una testa che già ‘funziona bene’ per farla funzionare meglio e stabilizzare la sua performance nel tempo. Io ho insegnato a lungo Psicologia dello Sport all’Università di Siena e ho notato che c’è molta diffidenza anche da parte degli psicologi stessi, i quali sono ancorati a una visione antica della professione. Il mestiere di mental coach non è ancora riconosciuto sul piano universitario, non è necessario un ‘patentino’: per questo molti si improvvisano, spesso con risultati disastrosi.
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